Omicron imperversa e qualcuno dice che sia tra i virus più infettivi mai visti. Tuttavia, i primi dati epidemiologici su Covid-19 che permettono di fare un confronto tra la malattia respiratoria provocata dalle diverse varianti (con delta in particolare) sembrano confermare la primissima impressione: per quanto è stato possibile osservare finora, i sintomi dati da omicron sono in media meno gravi, con un più basso tasso di ricovero e di morte.
Il motivo? Secondo uno studio (ancora in pre-print) del gruppo di ricerca coordinato da Ravindra K Gupta , tra i massimi esperti mondiali di coronavirus, omicron sarebbe meno efficace nell’infettare le cellule polmonari. E i lavori di altri scienziati sembrano andare nella stessa direzione.
Attenzione però: i nuovi dati sono presentati in articoli che non hanno ancora concluso il percorso di peer review e per la maggior parte hanno utilizzato modelli in vitro o animali, traendone conclusioni non sempre così nette e che di certo non possono essere traslate in automatico all’essere umano.
Cosa sappiamo su Omicron
Il 27 dicembre scorso, un team dell’università di Toronto (Canada) ha reso disponibile in pre-print un’analisi in cui i ricercatori hanno confrontato i tassi di ricovero e di decesso da Covid-19 provocata dall’infezione della variante delta (8.875 casi) o della omicron (6.312 casi) in coorti di pazienti paragonabili per età, genere, esordio della malattia e tenendo in considerazione il numero di dosi di vaccino ricevute e la data dall’ultimo richiamo.
Si tratta di uno dei primi rapporti che eliminano virtualmente i fattori confondenti che finora non avevano permesso di esporsi sulla gravità della malattia provocata da omicron. Ne è emerso che tra gli infetti da omicron sono state ricoverate 21 persone (0,3%) e non si sono verificati decessi, mentre tra gli infetti da delta i ricoveri sono stati 116 (2,2,%) e i decessi 7 (0,3%). Secondo questi dati, il rischio di ospedalizzazione e di morte per infezione da omicron sarebbe inferiore di oltre il 50% rispetto a quelli per infezione di delta.
Si direbbe una buona notizia, insomma. Tuttavia gli esperti non possono fare a meno di sottolineare che, alla luce dei numeri giganteschi della nuova ondata di omicron, non è detto che una diminuita pericolosità riesca a compensare l’aumento della trasmissibilità del virus mutato. In altre parole, in numeri assoluti omicron potrebbe comunque mettere in serissime difficoltà i sistemi sanitari.
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La variante, forse, risparmia i polmoni
Ma perché omicron sembra essere meno pericolosa di altre varianti? La ricerca che fornisce i dati più solidi, più convincenti, è quella di una collaborazione internazionale coordinata da Ravindra K. Gupta, uno dei maggiori esperti mondiali di coronavirus. Gli scienziati hanno confrontato in vitro le diverse varianti della proteina spike di Sars-Cov-2, notando che omicron trova difficoltà quando incontra cellule che esprimono una proteina chiamata TMPRSS2, come le cellule dei polmoni.
In pratica sembra che la spike di omicron non venga processata in modo efficiente e che il virus non riesca a indurre la fusione delle cellule adiacenti. La capacità di formare sincizi (cioè la fusione di più cellule insieme) è un meccanismo patogenico di Sars-Cov-2 che secondo gli esperti consente al virus di propagare l’infezione nel tessuto senza esporsi al rischio di essere riconosciuto dalle difese immuntarie: la perdita anche solo parziale di questa capacità da parte di omicron potrebbe giustificare la sua minore patogenicità.
Nella stessa direzione vanno i risultati conseguiti dal consorzio giapponese G2P (Genotype to Phenotype), che confermano le difficoltà di omicron nel formare sincizi in cellule polmonari mentre delta risulta più infettiva.
Gli interrogativi e le discrepanze tra gli studi
Sia gli scienziati del G2P sia altri gruppi di ricerca hanno poi prodotto dati qualitativi e quantitativi che complessivamente sembrano puntare a una minore gravità della malattia provocata da omicron. Tuttavia, non sempre i risultati sono sufficienti a dimostrarlo oppure non sono concordi tra loro. Per esempio uno studio di Hong Kong su modelli ex vivo (cioè su cellule di bronchi e polmoni umane espiantate durante un intervento chirurgico) afferma che omicron si replica più velocemente nelle vie aeree superiori (bronchi) e meno nei polmoni rispetto alle altre varianti e che forse per questo sia più trasmissibile ma meno pericolosa, mentre la ricerca di un’altra collaborazione internazionale, effettuata però su modelli murini modificati per esprimere i recettori umani Ace-2, ha trovato meno omicron nelle vie aeree superiori.
Anche i dati sulle differenze di perdita di peso degli animali da laboratorio infettati dalle varie varianti (utilizzato come indice di gravità della malattia) e sulla concentrazione di virus nei polmoni in diversi stadi dell’infezione non sono così forti. Inoltre, gli esperimenti sembrano risentire dei diversi modelli di studio (alcuni su topi, altri su criceti o su una particolare linea di criceti) e dei protocolli utilizzati, che introducono variabili che non assicurano la riproducibilità degli esperimenti e non consentono trarre conclusioni abbastanza affidabili – men che meno di trasporre le considerazioni sull’essere umano.
Nonostante numerose differenze e criticità metodologiche, però, tutti gli studi in pre-print citati si trovano d’accordo nel concludere che omicron abbia un impatto minore sulle cellule polmonari: all’analisi anatomopatologica, infatti, il tessuto polmonare infettato da omicron appare meno danneggiato e meno infiammato.
Via: Wired.it
Immagine di Daniel Roberts via Pixabay
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