Scoperta una variante dell’hiv: ecco cosa sappiamo

Abbiamo acquisito familiarità, purtroppo, con il termine “variante” negli ultimi mesi, e a oggi per molti è una parola che usiamo soprattutto per identificare diverse versioni del coronavirus. Ma non esiste solo il coronavirus. I virus, specialmente quelli a rna – ovvero quelli che utilizzano la molecola dell’rna come materiale genetico – tendono ad accumulare mutazioni. Succede di continuo dunque che emergano nuove varianti virali, versioni alternative di un virus originale o di riferimento. Monitorarle è importante per capire se le mutazioni hanno cambiato non solo il genoma del virus ma anche il suo comportamento. E succede, dicevamo, non solo per il coronavirus: anche l’hiv muta, e di una variante più virulenta e potenzialmente più dannosa, dà notizia un team di ricercatori da Oxford sulle pagine di Science.

Uno, tanti hiv

Premessa. Non esiste un solo virus dell’hiv: la prima classificazione è tra hiv di tipo 1 (predominante) e di tipo 2, ma non è che un’ombrello che comprende diversi gruppi e sottotipi. La pandemia da hiv è dovuta a un gruppo particolare di hiv-1, ricordano da Oxford, il gruppo M, che conta diversi sottotipi e forme ricombinanti (derivanti da ricombinazione tra diversi sottotipi, per co-infezione nella stessa persona), con diversa distribuzione geografica. 

I diversi sottotipi si classificano con le lettere dell’alfabeto e possono diversificarsi anche per comportamento. Ed è quello che oggi i ricercatori raccontano su Science: la scoperta di una variante del sottotipo B particolarmente virulenta, dove la virulenza dell’hiv è misurata in termini di carica virale ed effetti sulla popolazione bersaglio del virus, i linfociti T CD4.


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La variante VB

La scoperta arriva dall’analisi di un campione di persone parte del progetto BEEHIVE, per cui sono disponibili diversi dati, quali data di infezione, prelievi e analisi del genoma virale. All’interno di questo campione i ricercatori hanno inizialmente identificato 17 persone con questa variante virulenta, ma ne hanno trovate poi altre 92 cercando in un’altra coorte di olandesi: 15 dei 17 infatti venivano da lì. Questa variante (soprannominata VB, da virulent subtype B) presenta molte mutazioni, e il confronto con i genomi di altri virus suggerisce che siano insorte de novo e che non siano il prodotto di fenomeni di ricombinazione, spiegano gli autori. 

A livello clinico ha una carica virale nel sangue maggiore di 3,5-5,5 volte rispetto a quanto osservato in persone con altri tipi di virus del sottotipo B. Ma non solo: accelera anche il tasso di perdita dei CD4, raddoppiandolo. In sostanza, questo significa che gli stadi critici di conta dei CD4 – una misura dell’avanzamento della malattia e del rischio di Aids – possono essere raggiunti molto più velocemente, in assenza di trattamento.

Gli anti-retrovirali funzionano anche contro questa variante

C’è però una buona notizia: i trattamenti anti-retrovirali appunto, la vera rivoluzione ad oggi contro l’hiv, azzerano sostanzialmente queste differenze. Con il trattamento non ci sono differenze nella conta dei CD4 o nel rischio di mortalità e questo a prescindere dalla maggiore virulenza della variante, probabilmente, spiegano i ricercatori, per la tendenza di questi pazienti a iniziare prima degli altri il trattamento. “Questa informazione potrebbe essere fondamentale se la variante VB o simili fossero trovate in setting con poca disponibilità di assistenza per l’Aids”, si legge nel paper.

E la questione vera posta dalla presenza della variante è soprattutto qua. “Quanto abbiamo osservato sottolinea l’importanza delle raccomandazioni dell’Oms per l’accesso a test regolari per diagnosi precoce per individui a rischio di hiv, seguiti da trattamenti immediati – ha commentato Christophe Fraser della University of Oxford, tra gli autori del paper -. Questo infatti limita la quantità di tempo in cui l’hiv può danneggiare il sistema immunitario e compromette la salute di una persona. Non solo: assicura che l’hiv sia soppresso più velocemente possibile, così da prevenire la trasmissione ad altri individui”, dal momento che, come ormai noto da tempo, la terapia funziona da prevenzione anche nella lotta al virus

Al punto che, ormai dal 2016, l’Oms ha raccomandato per tutti, a prescindere dallo stato clinico, l’arruolamento in terapie antiretrovirali, disponibili per tanti ma non per tutti ancora: si stima infatti che alla fine del 2021 circa il 73% della popolazione con hiv fosse in trattamento, ancora lontano dal target del 95% che Unaids ha fissato per il 2025, ma lontano anche dal vecchio obiettivo del 90% entro il 2021. Ma il trattamento comincia solo dopo aver conosciuto il proprio stato, ecco perché i test rimangono fondamentali

Infine, concludono gli autori, l’idea oggi è che i trattamenti non abbiano favorito l’emergere di questa variante, tanto più che le mutazioni si stima siano avvenute prima della grande disponibilità di trattamenti combinati (prima del 1992), e tanto più che i trattamenti funzionano anche contro questa forma così virulenta (diffusa alla fine degli anni Novanta e in discesa dal 2008, seppur con qualche incertezza). La virulenza sembrerebbe più dovuta più a caratteristiche del virus, anche se non del tutto chiare, che a quelle della popolazione analizzata, che non appare diversa per caratteristiche demografiche e di comportamento alla media delle persone con hiv in Olanda. 

Via: Wired.it

Credits immagine: Testalize.me on Unsplash

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