Quando gli islamici commerciavano vino in Sicilia

Risorsa commerciale già ai tempi degli Etruschi, il vino era uno dei più importanti beni economici anche durante l’età romana. Fino ad oggi, non si conosceva molto del suo commercio dopo la caduta, nel V secolo d.C., dell’Impero Romano d’Occidente, soprattutto nelle regioni sotto il controllo islamico. Ma uno studio pubblicato su PNAS da un team di ricercatori provenienti dal BioArch Centre dell’Università di York, dall’Università di Tor Vergata e dall’Università del Salento mostra come nella Sicilia sotto la dominazione islamica, tra il IX e l’XI secolo d.C., l’industria vitivinicola fosse piuttosto fiorente.

Anche i mercanti islamici commerciavano il vino

I ricercatori hanno cercato di capire come la comunità islamica medievale abbia potuto prosperare in una regione dominata dal commercio del vino. Finora molti studiosi ritenevano infatti che la produzione e il commercio di questo prodotto fossero drasticamente calati con la conquista islamica, a causa delle proibizioni religiose. L’analisi di 109 anfore prodotte o importate in Sicilia tra il periodo tardo-romano e l’alto medioevo ha rivelato però l’esatto opposto. Analizzando i residui organici al loro interno con un metodo basato sull’analisi delle percentuali di due dei principali acidi organici del vino, l’acido tartarico e l’acido malico, i ricercatori sono riusciti a distinguere i residui di vino da quelli di altri prodotti a base di frutta diffusi nella cucina dell’epoca.

Queste nuove tecniche, insieme al confronto con frammenti di vaso impregnati di vino, hanno permesso agli studiosi di affermare che in molte anfore fosse trasportato quasi sicuramente il vino e che la comunità islamica fece di questa industria uno degli elementi del proprio successo. Probabilmente con una rete commerciale estesa a tutto il Mediterraneo, come suggeriscono anfore con tracce di vino nell’Italia continentale in Sardegna. Ma non è chiaro, aggiungono gli autori, se i commercianti fossero anche consumatori di quel vino e non si può nemmeno escludere del tutto che quelle anfore contenessero aceto o sciroppo d’uva.

La Sicilia in transizione: un nuovo sguardo

Lo studio è parte di un progetto molto ampio, dal titolo “L’archeologia del cambio di regime: la Sicilia in transizione”, che vuole indagare come il susseguirsi di diversi regimi politici in Sicilia tra il VI e il XIII secolo d.C. abbia avuto un impatto sulla cultura e sull’economia del territorio. Il team di ricercatori ha lavorato nei siti della Sicilia, in particolare a Castronovo, e abbiamo chiesto a Alessandra Molinari dell’Università di Tor Vergata che ha preso parte allo studio, cosa raccontano le testimonianze rinvenute in questi luoghi.

Dottoressa Molinari, può descriverci il vostro lavoro e l’importanza del sito di Castronovo?

“Castronovo è un piccolo paese a metà strada tra Palermo e Agrigento. La sua centralità per gli scambi nel territorio fin dall’Età romana ha determinato la presenza di una serie di siti archeologici molto importanti, che abbiamo studiato per cercare di capire l’intero territorio. La stratificazione di diverse culture all’interno della stessa area è infatti impressionante e ci ha permesso di vedere come, attraverso i secoli, siano cambiate non solo le abitudini alimentari e l’economia, ma anche il clima e l’ambiente. Abbiamo infatti trovato una buona quantità di oggetti, tra cui anche semi, carboni, ossa animali e umane, e li abbiamo analizzati con le nuove tecnologie a disposizione. Ad esempio, l’estrazione del DNA antico è più semplice, l’analisi dei contenuti organici apre nuove frontiere, l’analisi degli isotopi sulle ossa umane e animali fornisce informazioni sulla mobilità o l’alimentazione e quella delle piante permette di studiare il clima del passato. Si chiama archeobiologia e ci fornisce nuove procedure che stanno cambiando il mestiere arricchendolo di molti dati, dalla cultura dei popoli ai gusti alimentari o i tabù religiosi”.

E cosa vi ha permesso di scoprire per esempio l’archeobiologia?

“Tra gli aspetti più interessanti nel periodo della dominazione islamica, oltre al commercio del vino abbiamo potuto approfondire l’uso alimentare del maiale. È stato sorprendente notare come, soprattutto nelle città, non si trovano né ossa di maiale né grassi di maiale nelle pentole risalenti a quel periodo. Nell’antichità infatti era un alimento molto diffuso: il fatto che ad un certo punto i maiali scompaiano è un dato molto rilevante. Questi siti ci permettono anche di conoscere le dinamiche demografiche dell’epoca. Analizzando ad esempio il DNA dei resti rinvenuti nei cimiteri medievali di Segesta, abbiamo trovato due necropoli tra loro vicine, una islamica e una cristiana. Il dato interessante è che i due popoli non si sono minimamente integrati poiché presentano composizioni totalmente diverse. Infine, il ritrovamento a Mazara del Vallo dei più antichi semi europei di piante come melanzane, agrumi, spinaci o cotone ci ha permesso di confermare l’ipotesi, finora basata solo su fonti scritte spesso vaghe, che i musulmani avessero introdotto queste coltivazioni in Sicilia”.

E riguardo al vino, come interpretare i risultati emersi oggi dal vosto studio?

“Nella religione islamica, il vino non è un tabù come il maiale. C’era già il sentore della sua presenza sotto i regni islamici, con poeti che descrivevano lo stato di ebbrezza e raffigurazioni sulle ceramiche di persone che bevono. Lo studio ha però scoperto che era addirittura prodotto ed esportato, aggiungendo alle nostre ipotesi dei dati molti importanti”.

Riferimenti: PNAS, BioArCh

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