Il nostro Universo è finito?

Nel 1960, lo scrittore Albert Camus e lo scienziato Jacques Monod “si propongono di scrivere questo libro insieme, per proporre un’etica del disincanto fedele alla scienza, che si faccia carico di tutta la lucidità della finitudine”. Nei dialoghi che intercalano la lettura dei vari capitoli del nuovo libro di Telmo Pievani i due francesi commentano le idee più significative e ricordano momenti importanti della loro vita, la partecipazione ad attività politiche, le amicizie, le ideologie.

Entrambi hanno ricevuto il premio Nobel per i loro lavori e ciascuno, morendo, ha lasciato incompiuti gli appunti per il libro che stava scrivendo: Il primo uomo, quello di Camus; L’uomo e il tempo, quello di Monod. La finzione di Pievani riporta temi effettivamente affrontati nelle opere dei due personaggi, raccordati da riflessioni filosofiche, e unifica le due visioni del mondo in questo libro immaginario che reca traccia, non sempre esplicita, delle concezioni dello stesso Pievani, delle conoscenze scientifiche sviluppate in questi ultimi sessant’anni e degli inevitabili rimandi a situazioni attuali.

Si contestualizza la finitudine, dal livello cosmico, al livello della vita fino al livello molecolare. Il nostro Universo è finito? Guardando alle sue origini, la storia del Sole è già a metà del suo svolgersi, e tra un miliardo di anni, con la sua fine, la radiazione brucerà la Terra che, al giorno d’oggi, ha vissuto circa tre miliardi e mezzo dei quattro a sua disposizione. Su questa Terra, secondo i calcoli dei genetisti, sono già vissuti 100 miliardi di umani e pochi altri milioni potranno esistere fino alla fine della sua esistenza. Quello che succederà dell’Universo non è dato saperlo ma la finitudine della Terra è cosa nota. Più del 99% di tutte le forme di vita apparse sulla nostro pianeta si è già estinto, sterminato dai cambiamenti climatici, dalle modificazioni dell’atmosfera, dai movimenti tettonici della crosta terrestre. Su questo scenario l’umanità, che sconsideratamente aumenta le non poche probabilità di scomparire dalla faccia della Terra, potrebbe rappresentare la versione a posteriori della finitudine, ma questa eventualità futura non viene tenuta in conto nel modo di vivere umano e porta più verso considerazioni teoriche che verso effettive modifiche delle prassi quotidiane. E’ più facile considerare quello che è già successo: dipendiamo dalla storia passata, dalla sopravvivenza dei nostri antenati. Se loro non avessero potuto avere discendenti, si sarebbe attuata la versione aprioristica della finitudine: non si sarebbero realizzate le condizioni necessarie alla nostra esistenza oggi, non prevedibile a priori ma fattualmente dovuta ad eventi storici che si sono verificati in passato.

Telmo Pievani

Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà

Raffaello Cortina Editore, 2020

pp. 288 € 16

Religioni, filosofie e conoscenze scientifiche sostengono lo sforzo dell’umanità di negare la propria finitudine, ma ogni ribellione è insensata. Camus riprende i temi sull’assurdo sviluppati nei suoi libri come Lo straniero, e L’uomo in rivolta: il desiderio di eternità resta insoddisfatto nonostante i tentativi di agire, di conoscere, di lasciare tracce in un mondo al quale bisogna dire addio. Il caso e la necessità, aveva scritto Monod in un suo testo di successo, si completano reciprocamente nel succedersi degli eventi che regolano l’evoluzione e la permanenza della vita sulla terra, e si riflettono anche sulle contingenze individuali. Dice Monod (o Pievani?): “dall’intreccio del caso e delle leggi di natura emerge la contingenza della vita, e da essa trae nutrimento la nostra irriducibile liberta.” Sul piano evolutivo, del resto, la morte non è una malattia da curare ma è una condizione strutturale inscritta nella nostra organizzazione fisiologica: il tempo è il nemico.

Ricordando quanto Camus aveva scritto ne La peste, e riprendendo da Lucrezio la descrizione della peste che si era abbattuta su Atene nel 430 a.C. e che già era stata narrata da Tucidide, Pievani allude in modo non esplicito alla situazione attuale, all’imprevedibile sviluppo della pandemia di oggi, che pure è una delle tante che hanno modificato il corso della storia, ciascuna nel proprio tempo.

La tecnologia può fare assai poco per annientare la finitudine: su questo tema il pensiero dei due protagonisti non trova accordo. Ribadendo le convinzioni espresse ne Il mito di Sisifo, Camus afferma: “la scienza non mi aiuta a trovare un senso all’esistenza, perché un senso non c’è, e quel mondo scientificamente compreso, anche se mai del tutto, mi e estraneo”. Per questo, anche andare colonizzare altri pianeti è inutile perché si tratta solo di trasportare altrove il senso di estraneità e il degrado già attuato sul nostro.

Monod difende le sue posizioni, crede nelle possibilità della conoscenza, nello sviluppo delle idee “che lo scienziato ha il dovere di difendere fino all’estremo e che possono avere implicazioni filosofiche, ideologiche,etiche e politiche enormi. La scienza non e soltanto un insieme di risultati e di successi o un corpo di conoscenze, ma è un modo di pensare.” Per essere più convincente, spiega il significato delle scoperte scientifiche per cui, insieme ai colleghi dell’Institut Pasteur aveva preso il Nobel e riporta i disegni ormai classici che illustrano il metabolismo degli zuccheri in E.coli, mettendo in evidenza le relazioni tra struttura genetica e modalità di controllo sul funzionamento del DNA.

Camus sostiene la sua estraneità al sistema-mondo di cui gli aspetti scientifici e biologici rappresentano solo un aspetto. Le sue considerazioni spingono il dialogo tra i due personaggi a svilupparsi su temi di vasto respiro: il significato dell’ etica e delle ingiustizie sociali, il portato della scienza, il valore della umana volontà di conoscere.

La relazione tra militanza politica e scienza è ben testimoniata dalla vita reale di entrambi i personaggi. Monod parla della sua partecipazione nella Resistenza, critica fortemente le limitazioni imposte dalla politica sovietica alla ricerca, condanna le persecuzioni degli scienziati e l’acritico sostegno staliniano a Lysienko (che pure gli attuali studi di epigenetica stanno cominciando a rivisitare) .

Ritornando alla genetica, in quegli anni era stata da poco individuata la struttura a doppia elica del DNA e se ne indagava il funzionamento sviluppando l’antinomia tra evoluzione e conservazione. Il DNA è la struttura conservativa “responsabile del contenuto di invarianza caratteristico della specie”, e permette la trasmissione dei caratteri attraverso strategie riproduttive specifiche; “l’evoluzione è una perturbazione creativa di quella conservazione, che si alimenta di accidenti conservati.” Attraverso i meccanismi di mutazione, infatti, l’invarianza dei patrimoni genetici è perennemente perturbata, e in questa antinomia la vita si sviluppa come un processo irreversibile senza una direzione precisa e, soprattutto, senza un progressivo miglioramento o uno scopo definito a priori. Innovazione e conservazione sono entrambe necessarie per adeguare la vita all’ambiente che cambia.

Ancora seguendo Lucrezio, per sottrarsi alla finitudine si cercano principi primi, le fondamenta di tutto: gli atomi e il vuoto che alternano cicli di aggregazioni e disgregazioni. Alla morte succede la vita; alla vita segue sempre la morte, che noi umani cerchiamo di sfidare o di evitare con tutte le nostre forze. Ma scoprire di essere fatti della stessa materia delle stelle, degli oceani e di tutti gli esseri terrestri ha un valore scientifico, filosofico e poetico. Nell’incorruttibilità degli atomi che compongono l’universo si può trovare per un attimo un rimedio alla finitudine, al prezzo di rinunciare alla coscienza individuale.

La morte è sempre immanente, dolorosa, spesso ingiusta, comunque inevitabile. Nell’ultimo capitolo del libro si cerca di affrontarne il significato biologico e sociale esplorandola in varie dimensioni.

Dunque, scienza, etica, politica, appartenenza alla collettività umana, individualità personale si completano reciprocamente nelle conclusioni del dialogo tra i due personaggi, rispecchiando probabilmente le considerazioni di Pievani sul significato della scienza. “La ragione scientifica, si conclude, non è solo un fecondo strumento di indagine e di pensiero, ma è anche una rivolta” contro l’incoerenza dell’universo. Mitologie, Dei ed Eroi perdono di significato quando si tenta di guardare il mondo per quello che è, e sviluppando conoscenza, nel tentativo di capire, la vita umana dà significato alla sua finitudine ed esplica al meglio le sue potenzialità.

Credits immagine di copertina: Aron Visuals on Unsplash

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