Fase 3, quanti sono veramente i nuovi positivi?

La pandemia da coronavirus non è finita, anzi. Gobalmente la situazione sta peggiorando, sebbene in Europa cominci a migliorare, come ha riconosciuto anche l’Oms. Guardando all’Italia, dove i numeri, pur in un andamento altalenante, continuano a seguire un trend generale in diminuzione, da più parti cominiciano a emergere voci sulla minore gravità di Covid-19. Senza cadere nella facile ed erronea presentazione di un’emergenza ormai finita, i numeri relativi ai ricoveri e alle terapie intensive suggerirebbero un quadro complessivo meno grave, e l’evidenza clinica parla di nuovi positivi al tampone con una carica virale bassa. Ovvero: chi risulta oggi positivo a Sars-CoV-2 avrebbe meno virus nel tampone rispetto ai pazienti più gravi all’inizio e nel pieno dell’epidemia. Come si spiega questo dato? Risposte certe non ve ne sono, tuttavia è possibile avanzare qualche ipotesi e provare a rispondere. Come ha fatto nei giorni scorsi Guido Silvestri, virologo e direttore del dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio alla Emory University, in un lungo post su Facebook insieme ad alcuni colleghi.

La carica virale nei nuovi positivi

La tesi di Silvestri e diversi colleghi è che i nuovi casi che vediamo oggi sono sostanzialmente diversi da quelli osservati nel pieno dell’epidemia. “Più che di nuovi contagiati dovremmo parlare di nuovi positivi”, ha sottolineato Ilaria Baglivo, biochimica dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, coautrice del post su Facebook. “Quello che si osserva oggi nei tamponi è la presenza di una minore quantità di materiale genetico del nuovo coronavirus. Tanto che in molti casi potrebbero esserci soltanto dei frammenti di materiale genetico di Sars-Cov-2, ma non il ‘virione’, cioè la forma dl virus capace di provocare nuove infezioni”.

I test sierologici e i casi asintomatici sommersi

Il dato osservato, prosegue Baglivo, potrebbe spiegarsi con il fatto che i nuovi casi non siano in realtà nuovi. Probabilmente si tratta di persone che hanno contratto il Sars-Cov-2 tempo addietro, anche da 30 a 90 giorni prima del tampone, in forme leggere, tali da non dover richiedere un ricovero, o addirittura che non hanno avuto sintomi. E che ora vengono rintracciati anche a causa – o per merito – del fatto che hanno da poco preso il via indagini epidemiologiche e statistiche con i test sierologici (dove in caso di positività agli anticorpi si viene sottoposti al tampone). In precedenza, nel pieno dell’epidemia, si faceva il tampone soltanto ai soggetti venuti a contatto con contagiati o comunque persone con sintomi. Nei dati diffusi il 5 giugno 2020 dall’Emilia-Romagna, per fare un esempio, ci sono 17 nuovi positivi e tutti e 17 sono asintomatici accertati tramite l’indagine regionale da poco iniziata.

“Il collegamento tra il quadro clinico e la bassa carica virale – precisa la ricercatrice – è frutto di un’ampia analisi di dati all’interno di uno studio condotto dalla Emory University e dal San Raffaele di Milano, ricerca che è in corso di pubblicazione”.

Frammenti di coronavirus in via di smaltimento

Ma perché una carica virale più bassa dovrebbe indicare che si tratta di “vecchie” infezioni? “C’è una ragione scientifica ben precisa, che potrebbe spiegare questo legame”, chiarisce Baglivo. “Nelle persone contagiate il sistema immunitario risponde mettendo in atto una serie di processi che hanno l’obiettivo di eliminare le cellule infette e dunque il virus”. In pratica, il nostro organismo avvia una sorta di smaltimento, con cui il materiale genetico del virus viene frammentato per essere via via eliminato. “Per questo – aggiunge Baglivo – quello che normalmente accade nel tempo, anche con altri virus, è che il materiale genetico è presente e rintracciabile in quantità sempre più basse”. Da qui l’idea che a una carica virale ridotta corrispondano infezioni spesso contratte tempo prima.

I nuovi casi pertanto possono essere e rimanere positivi anche per tanto tempo, in qualche caso anche per 90 giorni. Ma attenzione a considerarli guariti. “Queste persone devono rimanere in isolamento domiciliare e seguire le indicazioni delle autorità sanitarie”, precisa Baglivo, “anche se la carica virale è bassa. Questo perché non esiste una soglia, un cut-off della quantità del materiale genetico del virus con il quale siamo certi che la persona non sia contagiosa, anche se si ritiene che i nuovi positivi che presentano queste caratteristiche abbiano una bassa probabilità di trasmettere il virus“.

Il caso dei ‘ri-positivizzati’

Nella categoria dei nuovi positivi possono rientrare anche i cosiddetti casi di ri-positivizzazione. Ovvero di persone definite guarite e negative al tampone che, ripetendolo tempo dopo, sono poi risultate di nuovo positive. “Probabilmente più che pazienti con una re-infezione”, sottolinea Baglivo, “si potrebbe trattare di casi in cui il materiale genetico del virus è meno presente, per il processo descritto sopra. E che per questo sono sfuggiti in qualche modo ad un primo tampone”.
Inoltre, queste spiegazioni non escludono che possano esserci diversi altri fattori, precisa l’esperta, riguardo al quadro clinico meno grave dei nuovi positivi. “Non è da scartare l’ipotesi, ancora non dimostrata, che il virus possa essersi in qualche modo adattato all’ospite”, conclude Baglivo. “E che dunque si presenti oggi in una forma meno aggressiva”.

Ma attenzione ai nuovi focolai

Statisticamente oggi ci sono meno pazienti gravi. Questo è dovuto anche al fatto che le fasce di popolazione più a rischio, fra cui gli anziani, sono purtroppo già state colpite nelle prime fasi dell’epidemia. Ma tra i nuovi casi, accanto a nuove diagnosi di vecchi contagi, c’è ancora una fetta di persone contagiate da poco, e focolai ancora da spegnere, come dimostra purtroppo il caso dell’Irccs San Raffaele Pisana di Roma scoperto nei giorni scorsi.

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Immagine di Arek Socha via Pixabay

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