A una certa età molti Grandi Vecchi amano ripensare alla vita trascorsa, ai loro successi e alle loro avventure, e scrivono le loro autobiografie. Daniel Dennet, filosofo americano ben noto per i suoi studi sulla coscienza, non è da meno e scrive un ultimo volume denso di ricordi, di amicizie, di progetti realizzati, di incontri e collaborazioni con i più importanti pensatori della sua epoca. I suoi lavori filosofico-scientifici sono stati da tempo pubblicati anche in Italia; in questa autobiografia le sue importanti interpretazioni dei fenomeni cognitivi, e in particolare delle relazioni tra comportamento, pensiero e linguaggio sono appena accennate, e non vengono elaborate in modo sistematico.
Un filosofo polemista
Leggendo l’opera si viene a sapere che nella storia della formazione di Dennet ha un ruolo rilevante W.O. Quine, filosofo del linguaggio, insegnante in una classe di futuri filosofi che, come Thomas Nagel, avrebbero lasciato un segno delle loro idee. La biografia mette ben in evidenza l’atteggiamento filosoficamente polemico di Dennet, il suo pensiero autonomo, la voglia di mettere in discussione le acquisizioni tradizionali e in particolare la concezione classica del dualismo cartesiano, che l’autore chiama “teatro cartesiano”, in cui le funzioni della mente e del corpo sono ben separate.
Gli anni di Oxford
Libri, lezioni, seminati testimoniano la carriera accademica e scientifica di Dennet, iniziata confutando appunto l’impostazione del suo maestro Quine e proseguita dedicando una parte importante di tempo e di riflessione allo studio della filosofia, della logica, della linguistica. Ammesso ad Oxford come Bachelor of Philosophy, Dennet comincia qui ad elaborare le proprie idee sulle molteplici interazioni tra neuroni e sulla loro evoluzione, abbozzando prime ipotesi sulla stessa essenza della coscienza. Il tradizionale conformismo di Oxford e le modalità arcaiche della vita di College sono evidentemente troppo strette per lui e i suoi colleghi americani, ma vengono rapidamente superate grazie a trucchetti che permettono di scavalcare muri e a frigoriferi che si riempiono di alimenti non consentiti.
Gli studi sulla coscienza
Agli studi filosofici si affianca adesso un minimo di preparazione scientifica, e viene anche lasciato grande spazio alla musica, all’arte – in particolare alla scultura – alle fughe notturne e alle amicizie che si sviluppano nelle lunghe discussioni dei seminari di studio. Numerosi esperimenti vengono proposti ai “veri” scienziati per dimostrare la cecità del cervello umano ai cambiamenti, importanti sostegni a favore delle ipotesi sull’esistenza o meno della coscienza. Dennet tende infatti a sostituire l’idea di una coscienza che rappresenta il mondo con una che chiama “delle molteplici versioni” in cui più componenti operano senza un unico centro di controllo. Non esiste infatti, secondo lui, una sorta di palcoscenico mentale in cui una sedicente coscienza si rappresenta i fatti, e non vi sono spettatori che guardano lo spettacolo che questa mette in scena. Gli uomini coordinano le loro molteplici percezioni e non possono semplicemente assistere alla rappresentazione del mondo fornita loro dalla coscienza.
Successi editoriali
Piuttosto, Dennet segue la falsariga del pensiero evoluzionistico darwiniano e sostiene la possibilità di una selezione naturale come sfrondatrice di modi di pensare inadeguati ai contesti; in questo modo i fenomeni della mente e del pensiero vengono interpretati in modo dinamico, contro le ipotesi adattazioniste, o velatamente finaliste, che invitano a pensare un mondo costruito a misura d’uomo, o per il bene dell‘uomo da una entità superiore. La collaborazione con Douglas Hofstadter gli consente i primi successi editoriali: pubblicano infatti insieme L’Io della mente ed elaborano più approfonditamente le complesse ipotesi sulla esistenza (o sulla non esistenza) della coscienza. Proprio in questo periodo i filosofi si interrogano sulle differenze tra il pensiero umano e quello delle macchine e i computer, ancora piuttosto lenti e monumentali, inducono a cercare somiglianze funzionali nella elaborazione dei vari tipi di “menti” più o meno raffinate. Le potenzialità delle macchine pensanti i erano ancora in via di sviluppo, Papert proponeva il suo approccio all’informatica per bambini piccoli, facendoli giocare con la sua tartaruga meccanica, lo scetticismo sulle potenzialità degli elaboratori si accompagnava ai crescenti sviluppi delle neuroscienze. Per Dennet i primi approcci all’intelligenza artificiale si realizzano ai tavoli dei ristoranti, durante cene squisite con i più esperti, in seminari e in accesi dibattiti, in proposte di esperimenti e in tentativi di elaborazione teorica; tra un seminario e un corso, si dedica ad esplorare le coste di Long Island in barca a vela con Jerry Fodor, compagno di avventure e avversario nel campo delle scienze della mente. Finalmente professore alla TUFTS University, diventa presto direttore del Center for Cognitive Studies dove si impegna nelle discussioni con i colleghi e nella formazione di giovani filosofi, liberi di pensare fuori dagli schemi e, come lui, anche un po’ attaccabrighe. Conflitti e competizioni non mancano ma la popolarità aumenta, e con questa gli inviti e le richieste di corsi e seminari in tutte le parti del mondo.
Il confronto con i colleghi
Il suo spirito polemico, unito a una buona dose di fiducia in se stesso, spesso al confine di una notevole presunzione, lo portano a confrontarsi con i più importanti filosofi del suo tempo, e a questionare violentemente con i suoi avversari ideologici. E’ interessante che alla fine della biografia Dennet dedichi alcune pagine a descrivere gli errori di importanti scienziati e filosofi con cui era venuto in contatto, persone che sostengono idee diverse dalle sue, poco disposti ad accettare le sue spesso aggressive correzioni. Esplicita così il suo disaccordo con Marvin Minsky, con Sir John Eccles, con Noam Chomsky; infine, nel capitolo che intitola “Bulli e iconoclasti del mondo accademico” polemizza con donne prepotenti ma, in particolare, con maschi come Stephen Jay Gould, Gerald Edelman, Jerry Fodor, John Searle e parecchi altri. Dennnet si gloria apertamente del suo ruolo di raddrizzatore di torti evoluzionistici, sostenendo che questo gli ha dato notevole fama… almeno tra chi la pensava come lui; ma a leggere il suo racconto, e la sua complessa biografia, sembra che questi contrasti rappresentino le solite vicende di competizione tra accademici o tra personaggi più o meno famosi.
L’immagine complessiva che emerge da questa autobiografia è certamente suggestiva, a volte irritante, a volte invidiabile… Rimanda certamente ai testi più propriamente filosofici, da “Coscienza, che cosa è” a “Strumenti per pensare” fino a quelli più problematici su argomenti biologici, come “L’idea pericolosa di Darwin” o “Dai batteri a Bach”. Vivissima è l’immagine del sistema di studi e formazione universitaria americano, che veramente stimola la libertà di pensiero e di espressione, e che è impossibile non confrontare con il nostro, molto più pavido e ingessato, in cui lo scambio critico di idee rappresenta un obiettivo molto molto lontano.
Credits immagine: Gerd Altmann da Pixabay
L’articolo Daniel Dennet, autobiografia di un filosofo attaccabrighe sembra essere il primo su Galileo.