Coronavirus, perché si torna a parlare di immunità di gregge

Un nuovo modello matematico sviluppato dai ricercatori dell’università di Nottingham e Stoccolma rivede le stime dell’immunità di gregge per Covid-19. Qualora continuando a studiare il coronavirus si accertasse che sia possibile raggiungerla, questa potrebbe essere più bassa di quanto predetto dai modelli classici: basterebbe il 43% della popolazione immune per rallentare la catena di trasmissione, anziché oltre il 60%. Questo perché, sostengono gli autori dello studio pubblicato su Science, bisogna considerare il caso più realistico in cui l’immunità si instauri naturalmente in una popolazione non omogenea.

Immunità di gregge

Ormai è un termine che abbiamo imparato a conoscere, ma ripetiamolo: l’immunità di gregge è un fenomeno che si verifica quando in una popolazione ci sono abbastanza individui immuni (che quindi o hanno già contratto la malattia infettiva e ne sono guariti, o sono stati vaccinati sviluppando degli anticorpi) da frenare la catena di trasmissione del patogeno, rendendo meno probabile – proteggendo in un certo senso – chi non è immune.

Dell’immunità per Covid-19 non si sa ancora abbastanza e dunque parlare di immunità di gregge (e soprattutto basare strategie di salute pubblica su questo concetto) ha fatto storcere il naso a molti esperti nei mesi passati. Tuttavia interrogarsi è lecito, oltretutto se si ammette, come nel caso della ricerca in questione, che si sta parlando sempre di modelli teorici e di stime, che partono da degli assunti e che fanno delle semplificazioni e delle generalizzazioni.

Immunità di gregge naturale

I ricercatori nell’articolo spiegano di aver sviluppato un modello matematico diverso da quelli finora utilizzati per le previsioni sulla soglia dell’immunità di gregge delle malattie infettive. I modelli classici, spiegano, sono pensati per un’immunità raggiunta tramite vaccinazioni prima dello scoppio di un’epidemia e in questi ogni individuo ha la stessa possibilità di essere immunizzato. Non è così invece per malattie come Covid-19, per cui un vaccino ancora non esiste e il modo in cui le persone diventano immuni al coronavirus è di contrarlo e sviluppare degli anticorpi.

In questo scenario, sostengono gli scienziati, non tutti hanno la stessa probabilità di diventare immuni. Per questo hanno sviluppato un modello che introduce come variabili la struttura della popolazione per età (hanno individuato sei fasce) e per attività sociale (hanno stabilito in modo arbitrario e a scopo illustrativo tre livelli: il 50% di ogni coorte di età ha un’attività normale; il 25% ha un’attività bassa, corrispondente alla metà dei contatti rispetto all’attività normale; il 25% ha un’alta attività, corrispondente al doppio dei contatti rispetto all’attività normale).

Introducendo queste variabili nel modello e applicandolo a scenari diversi con differenti tempistiche di entrata in vigore e revoca delle misure di contenimento (distanziamento sociale, etc), è risultato che il livello di immunità sufficiente a frenare la corsa del virus e mitigare una seconda ondata potrebbe potenzialmente ridursi al 43% della popolazione (i modelli classici invece stimano la soglia tra il 50 e il 75%), soprattutto per effetto dell’eterogeneità dei comportamenti sociali. Delle simulazioni effettuate, inoltre, l’unica a non raggiungere la soglia di immunità di gregge e quindi essere soggetta a una pesante seconda ondata epidemica è quella in cui le misure di contenimento sono introdotte presto e revocate tardi.

Un modello a scopo illustrativo

Gli autori dello studio precisano che il loro scopo è inserirsi nel dibattito fornendo spunti di discussione e approfondimento, eventualmente una base per ricerche future. Il modello sviluppato, infatti, parte dall’ipotesi che l’immunità conferita dall’aver contratto e essere guariti dal virus sia duratura, e, pur ritenuto più realistico di quelli presi a riferimento finora, è comunque piuttosto semplice e non tiene conto di altre variabili nella popolazione che potrebbero influire sulla soglia di immunità di gregge, per esempio la diffusione del patogeno all’interno delle famiglie (e la dimensione delle famiglie stesse) o all’interno delle scuole e dei luoghi di lavoro. Parametri, questi, diversi da Paese a Paese e suscettibili di variabilità anche in base all’area di riferimento (rurale, metropolitana, etc).

Come scrivono i ricercatori, inoltre, “un presupposto del nostro modello è che le misure preventive agiscono proporzionalmente su tutti i tassi di contatto. Questo potrebbe non essere sempre valido. Ad esempio, la maggior parte dei paesi mira a proteggere gli anziani e altri gruppi a rischio, il che non obbedisce a questa ipotesi. […] Un’estensione del modello sarebbe quella di consentire alle persone di cambiare il loro livello di attività nel tempo. L’effetto di tali cambiamenti nei livelli di attività, in particolare se variano tra le diverse categorie, rimane sconosciuto”.

Via: Wired.it

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Credits immagine di copertina: Markus Spiske on Unsplash

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