Il fotografo Oliviero Toscani è affetto da amiloidosi. Lo ha annunciato in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, dove spiega in che modo la malattia gli ha cambiato la vita da un giorno all’altro. “Fino al giorno prima di essere così, lavoravo come se avessi 30 anni”, ha spiegato Toscani. “Poi una mattina mi sono svegliato e all’improvviso ne avevo 80”. Ma che cos’è esattamente l’amiloidosi, quali sono le cause, i sintomi ed esiste una cura?
L’amiloidosi
Con questo termine vengono intese una serie di malattie rare e gravi, caratterizzate da depositi di proteine anomale, chiamate amiloidi, nei tessuti e negli organi. La varietà di queste condizioni, infatti, dipende dal fatto che ci sono circa 30 proteine che possono ripiegarsi in modo anomale e formare così amiloidi. Le proteine, ricordiamo brevemente, si basano su una serie di aminoacidi che si piegano in una forma tridimensionale, e ciò permette loro di svolgere le loro funzioni. Un ripiegamento anomalo e il conseguente accumulo, tuttavia, dà vita all’amiloide, una sostanza che non si degrada facilmente e può depositarsi nei tessuti e negli organi causandone il malfunzionamento. “I depositi amiloidi, occasionalmente, riguardano solo una parte del corpo (amiloidosi localizzata) ma, più spesso, interessano diversi organi (amiloidosi sistemica) come, ad esempio, il cuore, i reni, il fegato o il sistema nervoso”, spiegano dall’Istituto superiore di sanità (Iss). “Senza una cura che eviti l’accumulo di amiloide può verificarsi una riduzione, parziale o completa, del funzionamento dell’organo interessato e, in relazione alla sua importanza nel sostegno alle funzioni vitali dell’organismo (cuore, rene, ecc.), può sopraggiungere la morte, a volte, solo a distanza di un anno o due”.
Cause e sintomi dell’amiloidosi
Tra le diverse forme di amiloidosi, quella più frequente è chiamata amiloidosi a catena leggera (Al) ed è causata da un’anomalia nelle cellule plasmatiche del midollo osseo che producono in eccesso proteine chiamate catene leggere. Solitamente queste ultime formano gli anticorpi, ma nel caso della malattia, si aggregano in fibre rigide che l’organismo non riesce a degradare e che si vanno a depositare su cuore, reni, nervi e fegato. A seconda di dove si verifica l’accumulo di amiloidi, i sintomi differiscono. Nei reni, ad esempio, provoca ritenzione idrica, stanchezza, debolezza, perdita di appetito e insufficienza renale. Nel cuore, invece, può generarne un aumento delle dimensioni, compromettendone le funzionalità e, di conseguenza, provocare insufficienza cardiaca. Altri possibili sintomi possono essere: vertigini, svenimento, intorpidimento, aritmia, dolore toracico, disfunzione erettile, diarrea o costipazione, macchie di sangue sulla pelle, sindrome del tunnel carpale.
I trattamenti
Ad oggi non ci sono terapie approvate in grado di rimuovere o ridurre direttamente i depositi. Per questo motivo, si mira a prevenire l’ulteriore produzione di amiloidi e a curare eventuali danni degli organi. Nel caso dell’amiloidosi Al, come ricorda l’Osservatorio malattie rare (Omar), si punta a eliminare o stabilire la fonte della proteina amiloidogenica, con terapie anti-discrasia plasmacellulare (anti-Pcd). Nel caso dell’amiloidosi ereditaria (dovuta a un gene mutato ereditato appunto da uno dei genitori), se l’organo colpito è il fegato può essere necessario effettuare un trapianto, così come per i malati con amiloidosi da transtiretina (Attr) per cui si usano stabilizzatori della transtiretina e possono essere curati con un trapianto di fegato o di cuore. Attualmente, precisa l’Omar, sono 5 le terapie in via di sperimentazione, 3 anticorpi monoclonali per la forma Al e 2 per la forma Attr. “Con le cure moderne, l’aspettativa e la qualità di vita variano a seconda dell’estensione dei depositi amiloidi, dell’età, dalla salute generale, e di quanto la persona risponda alle cure”, concludono dall’Iss. “Nel complesso, molte persone con amiloidosi Al ora sopravvivono per diversi anni dopo la diagnosi della malattia e un numero crescente di persone vivono per un decennio o più”.
Via: Wired.it
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Credits immagine: National Cancer Institute su Unsplash
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